Il 30 ottobre 2024 al Nuovo Teatro Ateneo della Sapienza Università di Roma, in anteprima, è andato in scena Agenti di Teatroincontro, scritto e diretto da Mimmo Sorrentino. Frutto di un laboratorio svolto con agenti di polizia penitenziaria del carcere di Vigevano (Pavia), lo spettacolo si è tenuto al termine del seminario conclusivo del progetto di Terza Missione Indirizzi strategici «Per un teatro necessario – Università, carcere e scuola», diretto da Guido Di Palma per la Facoltà di Lettere e Filosofia, con l’obiettivo di promuovere una diversa considerazione del carcere da parte della società che l’ha concepito e generato.
Sono trascorsi ormai quarant’anni da quando, nella sua Storia di un impiegato, Fabrizio De André cantava la complessa coesistenza tra detenuti e agenti, nel rifiuto di «respirare la stessa aria» durante «l’ora di libertà» in cortile. Quarant’anni che hanno trasformato l’essere umano, il mondo, la società, la politica internazionale, l’Italia; quarant’anni in cui anche la visione del carcere e la considerazione dei detenuti sono cambiati – «Non ci sono più i detenuti di una volta» è una delle battute di apertura dello spettacolo. Ciò che non è cambiato, dice Mimmo Sorrentino in un’intervista di Luca Rondi, è il «mondo della piccola borghesia» da cui proviene chi si arruola nel corpo della polizia penitenziaria, che sembra aver mantenuto dei modelli che appaiono oggi anacronistici.
Drammaturgo, regista e “operatore” di teatro partecipato (si segnala il volume dedicato al suo metodo di lavoro, Il teatro partecipato edito da Titivillus nel 2009), Sorrentino ha la capacità preziosissima di usare il teatro per agire all’interno di diversi contesti, senza mai tradirne l’essenza. Se lavora nelle scuole, propone interventi diretti non solo agli alunni, ma anche ai docenti, al personale tecnico amministrativo e ai collaboratori. Lavorando in carcere da anni, è dunque perfettamente coerente che abbia avviato un progetto laboratoriale e di messinscena con gli agenti di polizia penitenziaria.
Assistere al debutto dello spettacolo che ne è derivato al termine di tre giornate dedicate alle relazioni tra teatro, università e mondo carcerario, ha provocato un ribaltamento imprevisto e vertiginoso della prospettiva. Infatti, in misura maggioritaria, la prospettiva ricorrente è giustamente quella dei cosiddetti “beneficiari” (uomini, donne e giovani adulti carcerati o ex detenuti), quella degli operatori che organizzano i laboratori teatrali (attori, registi o docenti) e quella delle istituzioni che a vario titolo lavorano per favorire tali percorsi. In questo senso, Agenti, ha evidenziato un’assenza nel dibattito sulle iniziative di formazione teatrale “applicata” (dalla formula inglese applied theatre) all’esperienza detentiva.
A rimanere tendenzialmente esclusa dalle azioni e dalla riflessione è proprio la polizia penitenziaria. Soli, invisibili, arrabbiati, gli agenti sono costretti a fare i conti con condizioni lavorative complesse e rischiose, con istituzioni assenti o sorde, con il mancato riconoscimento sociale del ruolo che svolgono; e, anche peggio, spesso con lo stigma di “cattivi”. In una bella intervista curata da Valentina Venturini e recentemente pubblicata nel volume La pedagogia nel teatro sociale (a cura di Guido Di Palma e Irene Scaturro, Bulzoni 2023), Sasà Striano dice che gli agenti «sono “più” carcerati di noi, le nostre due categorie non si sopportano per questo, perché entrambe hanno deciso di fare una brutta vita e, forse, entrambe a volte inconsapevolmente: […] entrambi sono insoddisfatti della propria vita».
Eppure, questi agenti esistono e hanno voce, hanno storie e istanze, anche loro richiedono una formazione adeguata. Come un orologio, il testo elaborato da Sorrentino ha la forza di intrecciare vicende diverse, che procedono parallelamente: ciascuno racconta qualcosa di sé, in maniera episodica. L’esperienza professionale ed esistenziale dei protagonisti è condizionata dalle relazioni all’interno del carcere, con i superiori, tra colleghi, ma soprattutto con i detenuti di cui si occupano e prendono cura. Ogni giorno, devono avere a che fare con lotte tra bande, con le perquisizioni, con l’oscura solitudine delle ronde notturne sul muro di cinta. C’è chi trova il proprio equilibrio nell’insegnare a lavorare la terra, chi impara a modulare meglio la voce per evitare escalation di violenza, chi tende l’orecchio e guarda con più attenzione le fragilità, chi prova il concorso per la guardia di finanza, chi vorrebbe sposarsi in alta uniforme anche se è un’agente donna. Ci sono pure, dall’inizio del 2024, 75 suicidi tra i detenuti, e 7 suicidi tra gli agenti.
Pochi gli oggetti di scena, nessuna scenografia se non uno schermo sul quale vengono proiettati disegni e acquarelli; luci e musica si limitano a valorizzare la dinamica ritmica della narrazione scenica, senza velleità estetizzanti né eccessi. Con una semplicità disarmante, lo spettacolo commuove, ma sa anche divertire. E sembra essere proprio l’ironia, cadenzata in maniera fine e sapiente, la chiave per estromettere qualsiasi posizione ideologica. A contare davvero, sembrano voler dire regista e agenti-attori, sono la qualità delle relazioni, l’ascolto e il rispetto reciproco… modi, insomma, di «esercitare la vita» (per dirla con Artaud) che si possono imparare proprio grazie al teatro.