Dal 26 novembre al 22 dicembre, al Teatro Argentina di Roma, va in scena Re Lear di William Shakespeare. Memore dell’esperienza con Giorgio Strehler, Gabriele Lavia dirige quattordici attori – oltre se stesso –, impacchettando un’opera imponente che, nel rispetto del testo, dirige verso la platea gli accenti poetici del drammaturgo inglese.
Ambientata in un «teatro abbandonato»1, la vicenda si sviluppa regolarmente, e ci accompagna tra i sentimenti e le azioni della corte di Britannia. In preda all’ira, il re cede le proprie terre alle due figlie Goneril e Regan, escludendo Cordelia, terzo elemento imprevedibile e beffardo che disprezza le usanze ma ama più sinceramente. Inebetito dalla condotta insensibile delle figlie, il re sarà costretto a vagare per una terra in tempesta, alla ricerca della propria fine, accompagnato da un improbabile seguito composto da un fedele servitore travestito, un matto e un figlio disperato travestito da ospite di manicomio. Emerge nitidamente il tema della follia, declinata secondo il personaggio. In Lear, – interpretato dal regista stesso – assume i contorni di un mancato desiderio di accettare la realtà: pur di non vedere il male ricevuto, il monarca si porta all’esasperazione – iroso com’è –, e scivola verso un mondo dove le figlie, in realtà, forse, non lo hanno tradito. In Edgar – magistralmente interpretato da Giuseppe Benvegna –, si traveste e rappresenta, poiché il figlio giudizioso e buono di Gloster deve occultare le proprie sembianze. Ancora più nel Kent di Mauro Mandolini, essa è lucida e precisamente indirizzata. La follia del Matto è diversa e più triste: condita di umorismo e entusiasmo, l’indole del servitore del re non manca di dimostrarsi melanconica e nostalgica, oltre che tragica. «Quand’ero piccino pensavo che il mondo fosse uno scherzo», dice Andrea Nicolini. Evidentemente, non è così.
Essendo una delle tragedie più dense e complesse di Shakespeare, Re Lear necessità di un grande investimento di tempo e energie. L’intera messa in scena, escludendo la pausa, dura 3 ore e 15 minuti. Le scene, i costumi, le luci, le musiche e la gestione del suono – rispettivamente di Alessandro Camera, Andrea Viotti, Giuseppe Filipponio, Antonio Di Pofi e Riccardo Benassi – contribuiscono grandemente alla realizzazione efficace di una produzione ambiziosa. I costumi, sontuose pellicce prese da dei bauli, rappresentano per il regista la precarietà della vita e l’arte di arrangiarsi di un gruppo di attori che è costretto a mettere in scena «una vecchia storia»2. Le musiche, composte per l’occasione, ma anche suonate e cantate nel corso dello spettacolo, assieme alle luci e alla scena, creano un’atmosfera precisa e particolare. È la “vecchia” versione del teatro, quella che racconta storie e somiglia al cinema – anche se tutti sappiamo che, cronologicamente, viene ben prima: proprio il cinema ha costretto il teatro a ridefinirsi, e questa messinscena si rifà a quel modello perduto, antecedente all’uso delle pellicole.
Particolarmente intenso è il rapporto tra figlio e padre, Edgar e Gloster – interpretato da Luca Lazzareschi –, che commuove e fa fremere. La scena dell’accecamento del vecchio servitore è potente: tenuto fermo su una sedia rovesciata, il pover’uomo viene privato di entrambi gli occhi dal crudele marito della figlia del re, mentre questa suona freneticamente alcune note al pianoforte. Più avanti, inscenando un suicido non andato a buon fine, il personaggio si getta da una sedia e cade a terra, prontamente recuperato dalle mani del figlio, sempre pronte a salvare e in seguito dedite all’assassinio. Sarà di fatti lo stesso Edgar a uccidere il fratello Edmund, che lascerà esangue questo mondo. Il personaggio del fratello nato sotto cattiva stella – cioè bastardo – emerge fortemente nella prima parte dello spettacolo, grazie a Ian Gualdani. In seguito, raggiunti i suoi obiettivi, paradossalmente perde di centralità, quasi come che la sua vocazione fosse concepire trame, dando vita a bei monologhi, piuttosto che mettersi in una posizione di potere.
Re Lear, di Gabriele Lavia, mette in scena un classico del teatro. Nel rispetto del testo, capace di mettersi al servizio, l’opera prende vita e comunica al pubblico i modi di pensare, di poetare, di vivere e di morire dell’età elisabettiana (e non solo, se si crede nell’universalità dei sentimenti umani). In una grande sala adornata, ricca e colma, dotata di spalti e platea, si dà il teatro, e per un secondo si è trasportati in quella dimensione magica a metà tra la realtà e il sogno.
Re Lear
di William Shakespeare
regia di Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Federica Di Martino, Silvia Siravo, Eleonora Bernazza, Giuseppe Benvegna, Ian Gualdani, Jacopo Venturiero, Giovanni Arezzo, Beatrice Ceccherini, Gianluca Scaccia, Jacopo Carta, Lorenzo Volpe.
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
luci Giuseppe Filipponio
musiche Antonio Di Pofi
suono Riccardo Benassi
assistenti alla regia Matteo Tarasco, Enrico Torzillo
assistente alle scene Michela Mantegazza
assistente ai costumi Giulia Rovetto
suggeritore Nicolò Ayroldi
foto di scena Tommaso Le Pera
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, LAC – Lugano Arte e Cultura