Il Teatro Vascello di Roma porta in scena Il Giardino dei Ciliegi di Leonardo Lidi, ultima tappa, dopo Il Gabbiano e Zio Vanja, del suo Progetto Čechov.
«Poi si arriva al Giardino, dove al centro poniamo un luogo – una casa, un giardino – che deve essere venduto, abbattuto perché non è più utile».
Davanti alle poltrone ancora chiuse del Teatro Vascello a Roma, su una scena pressoché nuda, si contrappongono beffarde delle fredde sedie da giardino in plastica bianca; di quelle sporche, a volte bagnate e perfino un po’ sbilenche. che solitamente si trovano all’esterno dei bar.
Fin dall’inizio il palcoscenico è esposto allo sguardo dello spettatore. Non c’è nessun sipario a coprire la quarta parete, mentre le altre tre sono coperte da drappi di plastica nera, di un materiale che ricorda molto quello usato per i sacchi della spazzatura condominiali.
Alla struttura di tubi Innocenti che sovrasta il palco (l’americana), sono fissate accecanti lampade al neon. Presto si scoprirà essere un inquietante marchingegno che incombe sulle teste degli attori; sollevato durante i momenti di tranquillità o inclinato a rappresentare una spiaggia lacustre, nel finale si abbatterà come una scure sul Giardino dei Ciliegi, in un atto di smembramento che fa da eco alla lottizzazione che il giardino subirà, per essere venduto a ricchi villeggianti.
Gli attori si muovono e agiscono in scena come se al posto della platea ci fosse il giardino. Lo scrutano così da una finestra immaginaria, arrivando perfino a spingersi oltre il praticabile, mentre, ricordando il passato, esprimono a turno l’affetto per questo pezzo di terra ora innevato (la scena si svolge in inverno). In seguito, sfilano davanti agli spettatori in costumi che sembrano essere stati presi alla Caritas, felpe, maglie bucate, piumini sporchi di grasso, uno smoking, un kigurumi da ape (un pigiamone giallo a righe nere di pile, perché «fa sempre freddo», come tengono sovente a precisare, «meno tre gradi»), calze sfilate, magliette di Snoopy. Abiti casuali, quasi senza senso, che fanno pensare più a un gruppo di senzatetto che di aristocratici russi, seppur in disgrazia. Sarà solo alla fine, durante la festa organizzata prima di ricevere la notizia della vendita, che faranno la loro apparizione anche dei vestiti eleganti.
Francesca Mazza, nella parte di Ljubòv’ Andrèevna, la proprietaria, fuggita dal giardino dopo l’annegamento del figlio, ritorna dopo aver dissipato una fortuna in Europa, solo per assistere alla vendita della sua proprietà a Lopàchin, che un tempo le aveva fatto da servo.
Lopàchin (Mario Pirrello), un perfetto yuppi uscito da un film dei Vanzina, con tanto di stempiatura alta e doppio petto, iperattivo e ossessionato dal lavoro, inizialmente prova ad aiutare Andrèevna, suggerendo di salvare il giardino attraverso una lottizzazione, che permetta di venderne una parte ai villeggianti. Osteggiato per orgoglio fino alla fine, finisce per acquistare lui stesso la terra, rinunciando così all’amore, cioè al matrimonio con Varja, la figlia adottiva di Ljubòv’ Andrèevna.
Come nell’opera di Čechov, Lidi mette in scena la rovina economica che travolge le vite di ricchi possidenti. Sotto la patina, ormai opaca, del loro orgoglio, essi non sono altro che sciagurati senza arte né parte, senzatetto vestiti alla bell’e meglio, che pagano il loro implacabile rifiuto delle regole borghesi con una condizione di marginalità, esiliati da una realtà che si fa sempre più distante.
Il regista crea un meccanismo narrativo asciutto, veloce, in cui il tentativo di salvataggio del giardino si infrange continuamente contro l’ottusità di Ljubòv’ Andrèevna, in quella che è una perfetta rappresentazione dello scontro tra l’utilitarismo borghese e la crisi dell’aristocrazia, aggrappata ai propri valori anacronistici come il passeggero di una nave che affonda, più preoccupato di non bagnarsi che di salvarsi la vita.
La scena della vendita all’asta è una cristallizzazione perfetta dell’atmosfera in cui vive questa aristocrazia, permeata di spossatezza e di uno strisciante senso di fallimento che sembra trasudare dai personaggi come un umore infetto.
È proprio questa coltre cupa, tra l’altro perfettamente in linea con il tono del testo originale, a far risaltare ancora di più la scelta, effettuata da Lidi, di conferire a diverse scene un tono che ricorda la commedia musicale o il cabaret. Lopachin, per esempio, a un certo punto canta con un microfono ad asta, in una esibizione tra Little Tony e il Toni Servillo di Un uomo in più, mentre incita il pubblico a fargli da coro; ci sono battute, ci sono mani che scivolano sul sedere e mani che si cercano timidamente; ci sono perfino le goffe vicissitudini di “trentatrè disgrazie”, Epichòdov il contabile interpretato da Massimiliano Speziani, che si diletta in un tip tap, salvo finire incastrato tra le sedie da giardino. Per finire, proprio prima della vendita all’asta, gli interpreti si scatenano in una danza frenetica, indossando cappellini di carta a punta e abiti che sembrerebbero più adatti a un prom (la grande festa da ballo che negli Stati Uniti segna la fine della scuola secondaria superiore), tutti vengono obbligati a ballare, perfino l’anziano in carrozzina, Firs.
Le scene di ballo, di festa, che coinvolgono gran parte dei personaggi, con l’unica eccezione costante di Ljubòv’ Andrèevna, al di là di quelle che siano le intenzioni del regista, contribuiscono a scavare un solco ancora maggiore tra la Andrèevna e il resto del mondo. Nella sua natura di attività collettiva, che annulla le distanze, i ruoli, le età, il ballo sembrerebbe rappresentare, almeno per gli aristocratici che vi partecipano, un’apertura verso il futuro, l’accettazione di un cambiamento. L’unica figura che si sottrae a questa temporanea e simbolica fusione con l’energia della realtà, è proprio la figura che più di tutte si è arroccata nel suo austero maniero di regole e tradizioni, disposta a morire in miseria piuttosto che abbandonarlo.
Inoltre, la gaia sfrontatezza della festa, sembra anche voler indurre lo spettatore a stabilire una giusta distanza rispetto alla tragedia, vissuta soprattutto da Andrèevna, che gli permetta di formulare su di essa un giudizio più oggettivo. Uno stato mentale in cui riesca a ridere della danza frenetica di Jasha, che finisce col mangiare un sedano, nonostante la inevitabile attenzione data alla sorte del podere.
Arriverà Lopàchin a frenare l’entusiasmo di tutti, elegante come sempre, porta addirittura lo champagne per festeggiare: il podere è stato venduto, sarà lottizzato, «l’ho comprato io! Dio mio, Signore, il giardino dei ciliegi adesso è mio! […] Io ho comprato la proprietà dove mio nonno e mio padre erano schiavi, dove non li lasciavano entrare nemmeno in cucina… Io sto sognando, tutto è soltanto una mia illusione, un’apparenza…».
È la trasfigurazione del servo in carnefice, che in un delirio di sadismo riesce a sottomettere i suoi ricchi padroni: Lopàchin, nato contadino e poi arricchitosi, compra non solo il giardino, ma anche i nostalgici ricordi d’infanzia dei suoi proprietari. In realtà, liberatisi tutti del pesante fardello della tenuta Ranevskaja, inizia una nuova vita per tutti, basta sguardi smarriti, basta all’angoscia, i personaggi sono sereni e iniziano a sorridere. Ljubov torna a Parigi, Anja parte con Trofimov, Varia andrà a servizio di una famiglia per bene, Gaev lavorerà in banca.
Perfino Pišèik ha il suo colpo di fortuna e saluta tutti ricordandoci che «Ogni cosa ha fine a questo mondo…», anche questo spettacolo.
PROGETTO ČECHOV – terza tappa
di Anton Čechov
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
con (in o.a.): Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi
Durata dello spettacolo: 1 ora e 40 minuti