Tre modi per non morire: Chi sono questi fantasmi?

Tre modi per non morire è uno spettacolo difficile. È un’opportunità di intraprendere un viaggio filosofico nella società umana attraverso la poesia di Baudelaire, Dante, fino ai Greci.

Lo spettacolo è articolato in tre tappe, ognuna sviluppata su un tempo-ritmo differente. Il testo di Giuseppe Montesano è un adattamento costruito a partire da tre suoi precedenti monologhi: Monsieur Baudelaire, quando finirà la notte?, Le voci di DanteIl fuoco sapiente, tutti già interpretati da Toni Servillo.

Perché raccoglierli in un’unica messinscena? Quali sono i punti di contatto?

Tutta la poesia da loro prodotta è possibile rileggerla, analizzarla, con lo sguardo contemporaneo e coglierne i messaggi ancora a noi vicini. Gli elementi fondamentali delle loro opere – lo spleen di Baudelaire, le vittime dell’eros e gli ignavi di Dante, i «mostri» umani portati sulla scena greca – sono ancora adatti a descrivere la condizione umana.

Il primo a invadere la scena è Baudelaire. Servillo si presenta al pubblico a luci accese, si posiziona dietro il leggio e comincia il monologo. Il ritmo è incalzante, Servillo procede inarrestabile, senza chiedere al pubblico di seguirlo. Fugge da qualcosa? Le corre in contro? O è solo esaltato dalle passioni? E poi chi parla? Baudelaire stesso o un suo epigono? Difficile a dirsi, talvolta Servillo parla in prima persona, talvolta si rivolge a «Monsieur Baudelaire». Ma non importa. Gli spettatori lo seguono ugualmente, devono e vengono trascinati nella sua forsennata corsa.

Le parole di Servillo-Baudelaire sembrano essere pronunciate non solo per il loro significato, ma anche per la loro musicalità. L’eloquio è compresso, scattante, ma talvolta i suoni si allungano, salgono e scendono di tono, come a voler rappresentare anche sonoramente il turbinio caotico dell’animo del poeta.

Poi, una pausa. La luce si spegne su Servillo e la sua figura nera si staglia contro la luce prodotta dallo schermo che fa da fondale. I colori che illuminano il monologo di Baudelaire sono il rosso e il ciclamino, colori infiammati, i colori della passione, dell’amore, ma anche del sangue; i colori di un desiderio che non è più puro, perché dettato dai gusti della massa. La poesia sola può, forse, salvare l’uomo; attraverso essa sola si esprime la vita.

Anche la musica si fa elemento drammaturgico. Note potenti e angoscianti quelle che accompagnano la voce di Baudelaire.

Quando arriva il momento di Dante, l’atmosfera cambia. La musica si fa più lenta e solenne. I colori si raffreddano e il pannello sullo sfondo si tinge di blu. Il colore della notte vagamente illuminata dalla luna, il colore della tristezza.

Anche il modo di esprimersi di Servillo muta. Non è più incalzante, ma cadenzato e lento per adattarsi all’imponenza dei versi del Poeta. Servillo non chiede più al pubblico di seguirlo in una corsa forsennata, ma lo prende per mano, e sembra quasi di chiedere agli spettatori di accompagnarlo come Virgilio con Dante. Ma dove? Nei mondi della Commedia, nei passi più famosi, che sono rimasti tali proprio perché ancora parlano al pubblico contemporaneo. E così Servillo ci porta a riscoprire gli ignavi, che miseramente si rifugiano in una vita vuota, imitandosi e invidiandosi l’un l’altro; poi Ulisse, il pagano che sacrifica la propria vita e quella dei suoi mariani per sete di conoscenza; e Paolo e Francesca, gli amanti morti per il loro adulterio, ma con i quali non si può non empatizzare, vinti dalla tenerezza di un amore puro così brutalmente punito.

E proprio mentre ci si accoccola in quel viaggio e ci si commuove, bruscamente, le luci si accendono. La sala è illuminata a giorno, ma lo spettacolo non è finito. Manca ancora la poesia greca. Servillo allontana il microfono e porta avanti il suo leggio fino al proscenio. Ora ha il pubblico in mano, la quarta parete crolla definitivamente e lui si rivolge agli spettatori con familiarità, abbandonando via via la lingua italiana e lasciandosi sempre più trasportare dal dialetto campano.  

Come parlasse ad amici, descrive l’importanza della poesia per quel popolo antico, che però appare ancora così moderno. E la poesia aveva uno spazio deputato al tempo, il teatro, l’edificio che i Greci costruivano in qualsiasi luogo approdassero. Perché esso era il luogo della verità, il luogo in cui, alla luce del sole, la vita di ognuno si rifletteva come in uno specchio. La poesia raccontava a tutti la vita di tutti; come «’nu piezzo ‘e pane» essa rappresentava il culmine della vita condivisa.

All’improvviso il buio. Poi luce e inizia lo scroscio di applausi con cui gli spettatori ripagano Servillo per il viaggio che ha concesso loro. Un viaggio che pur muovendosi a ritroso nel tempo nella scelta dei protagonisti, si è rivelato una corsa allo svelamento delle questioni che hanno attanagliato gli uomini e le donne da sempre e che ancora oggi si rivelano pregnanti.

Durante l’intero spettacolo, un tema torna sempre: l’individualità, nella sua accezione positiva di espressione della propria personalità curiosa e in quella negativa di opposizione egoistica alla comunità. Qual è oggi la nostra comunità? È un’idea inesistente, uno spettro sbiadito. Viviamo in un’epoca in cui siamo sempre soli, anche nei nostri momenti di condivisione più intima con altri esseri umani, incastrati in una dinamica che ci porta sempre ad arroccarci nell’idea di «io, mio, io, me». Abbandoniamo il dovere dell’esistenza a delle memorie esterne, i nostri cellulari e i mondi che essi ci promettono.

Chissà che il viaggio in cui Servillo ha condotto il pubblico non consenta a chi vi ha preso parte di poter accendere quella scintilla di cui lui stesso ha parlato, quella che ha permesso al protagonista del mito della caverna di Platone di risvegliarsi, seppur con esiti meno desolanti di quelli che l’attore, a termine del suo monologo, ha proposto.

Tre modi per non morire – Baudelaire, Dante, i Greci

Di Giuseppe Montesano

Con Toni Servillo

Luci di Claudio De Pace

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