Insieme all’album Blackstar, uscito a fine del 2015, il coevo Lazarus rappresenta l’ultimo regalo di David Bowie all’umanità, prima di morire nel gennaio del 2016.
Con la regia di Valter Malosti e le interpretazioni di Manuel Agnelli (nel ruolo Thomas Jerome Newton), Casadilego, Dario Battaglia, Camilla Nigro e Maurizio Camilli, il Teatro Argentina di Roma l’ha messo in scena dal 5 al 15 giugno.
La storia è incentrata sul personaggio di Thomas Jerome Newton, l’alieno caduto sulla terra che Bowie aveva portato al cinema nel 1976 nel film di Nicholas Roeg L’uomo che cadde sulla terra, tratto dall’omonimo romanzo di Walter Tevis.
La trama, in effetti, rappresenta un vero e proprio seguito del film. Il migrante interstellare Thomas Jerome Newton, interpretato con rigore e personalità da Manuel Agnelli, è ancora intrappolato sulla Terra. Ormai è diventato un ossimoro: un moribondo costretto a vivere, un vecchio che non può invecchiare («Sono un uomo che sta morendo, ma non può morire»), isolato dal mondo e prigioniero delle mura del suo stesso appartamento newyorkese.
Divorato dalla depressione, cerca nel gin un rifugio dalla foresta di fantasmi del passato che lo perseguita, tra cui emerge lo struggente ricordo di Mary-Lou, il suo amore disperato e perduto.
Lo spazio scenico gioca un ruolo fondamentale nel ricostruire lo spazio mentale dell’alieno. Per esempio, Thomas canta su una pedana rotante, come una ballerina in un carillon, ruotando in un un movimento ipnotico, che sembra voler richiamare la circolarità dell’ossessione, il ciclo infinito in cui è intrappolato.
Ai lati, i musicisti disposti in modo asimmetrico, vestiti di nero e camuffati in modo da coincidere con la scenografia, come se provenissero da una zona altra, da un altrove musicale che dialoga con lo spazio, ma anche lo destabilizza.
Altro elemento fondamentale, probabilmente il più evidente, è la moltitudine di schermi, usati non come semplici supporti visivi ma come strumenti drammaturgici. In un passaggio significativo, lo spettatore si rende conto che un grande schermo posto al centro del palco – inizialmente percepito come lo schermo di un cinema – è in realtà un palco nel palco, una soglia tra finzione e realtà, tra presenza e immagine. Siamo dentro una mise en abyme, in cui osserviamo passivamente, insieme a Thomas, la sequenza frammentata di ricordi e allucinazioni che emergono dalla sua mente, vittime, come lui, di questo flusso senza fine.

Questa scelta attiva un gioco metateatrale che non è semplice virtuosismo, ma un commento sul nostro presente ipermediale, in cui buona parte dell’esperienza del mondo passa attraverso gli schermi di una moltitudine di dispositivi. Il teatro si fa specchio (o schermo) della condizione contemporanea: viviamo inquadrati e di inquadrature.
L’immagine diventa così un riflesso, più che un sintomo.
Anche l’identità, come Bowie ha insegnato, è qualcosa che accade attraverso la moltiplicazione, la frantumazione, il travestimento.
Narrativamente, lo spettacolo avanza in maniera erratica, con una logica che fa pensare al sogno o a uno stato allucinatorio: in questo senso, Lazarus propone più un’esperienza che una trama in senso stretto. I salti temporali, i vuoti narrativi, le apparizioni di personaggi che sembrano sogni o proiezioni interne; tutto partecipa a una drammaturgia del disorientamento. Si ha l’impressione di assistere a una forma di cut-up teatrale, un procedimento caro a Bowie (e a Burroughs prima di lui), dove il senso emerge per sovrapposizione, per collisione tra frammenti. Non c’è una direzione lineare, ma un campo di possibilità.
Dal punto di vista dell’adattamento italiano, Valter Malosti, insieme a Manuel Agnelli, Casadilego e gli altri artisti coinvolti, hanno scelto al posto della semplice “copia tradotta”, la via più artisticamente soddisfacente della reinterpretazione. La figura dell’alieno bowiano viene trattata con grazia, misura e rispetto, e il pubblico sembra apprezzare molto.
Alcune scelte di traduzione non sempre però convincono: l’inserimento di espressioni italiane volgari, per quanto coerente con una certa crudezza del testo originale, suona in certi momenti più forzato che organico. È come se la lingua, proprio in quei momenti, perdesse quella sospensione poetica che caratterizza, invece, il resto dello spettacolo.
Eppure, nonostante (o forse grazie a) questa imperfezione, Lazarus riesce a toccare qualcosa di vero: parla della solitudine, della mente che si rompe, della nostalgia di un altrove irraggiungibile. Parla della difficoltà di restare umani, del desiderio – sempre frustrato – di tornare a casa. E lo fa con una grazia ruvida, piena di ombre e di ferite, in equilibrio costante tra fragilità e potenza.
Lazarus
versione italiana del testo Valter Malosti
orchestrazioni e arrangiamenti originali Henry Hey
progetto sonoro GUP Alcaro
scene Nicolas Bovey
costumi Gianluca Sbicca
luci Cesare Accetta
video Luca Brinchi e Daniele Spanò
cura del movimento Marco Angelilli
coreografie Michela Lucenti
cori e pratiche della voce Bruno De Franceschi
maestro collaboratore Andrea Cauduro
assistenti alla regia Jacopo Squizzato, Letizia Bosi
foto Fabio Lovino